Prosegue il dibattito sulla sentenza Shell: Massimo Nicolazzi e Lorenzo Parola tornano sul tema (v. Staffetta 07/06) alla luce di una recente notizia di cronaca economica, secondo cui per fare quanto le chiede il Tribunale olandese, il gruppo si appresta a vendere attività di produzione di idrocarburi per 10 miliardi di dollari. Riducendo le proprie emissioni Scope 3, ma a emissioni globali invariate.
La sentenza Shell ha avviato dibattito, il che è sempre sano. A volte poi le distanze sono più apparenti che reali. GB Zorzoli si chiede dove sia lo scandalo. E noi la parola scandalo non l'abbiamo né scritta né pensata. Lui poi usa la parola “norma”, affermando che ciò che fatto il Giudice è “esattamente quanto avviene ogni qual volta una norma introduce un vincolo alle emissioni”. Laddove l'implicazione è che il giudice abbia normato anziché sentenziare; e anche su questo siamo perfettamente d'accordo.
Forse ci divide, ma non ne siamo certi, il giudizio sugli effetti potenziali della sentenza. Sentenza che a nostro avviso cade nello stesso limite in cui è caduto l'invito alla immediata cessazione di nuove attività upstream del rapporto Aie “Net Zero”. Entrambi agiscono sul lato dell'offerta; e potrebbero perciò essere condannati a passare alla storia come sostanzialmente inefficaci.
Un passo indietro. La Sentenza come noto computa a carico di Shell anche le emissioni c.d. Scope 3, quelle cioè derivanti dai consumi finali. Per semplificare, assumiamo che il 100% dei consumi finali sia costituito da carburanti per autotrazione. Quanta emissione si produce dipende peraltro dalla domanda, e non dall'offerta. Siamo noi che decidiamo che motore (in termini di efficienza) scegliere, e quanti chilometri fare, e a che velocità andare. A Shell il giudice ha chiesto di ridurre del 45% le proprie emissioni di qui al 2030; e circa l'85% delle emissioni imputate a Shell sono Scope 3. L'unico modo per ridurle è però di obbligare il consumatore alla virtù; il che non pare rientri nei poteri di Shell. Per aggredire Scope 3 ci vorrebbe una norma (appunto…). Per aggredire la domanda o almeno la parte di domanda che è spreco occorrerebbe un percorso di divieti e tassazione. Limite di velocità a 90 kmh; un euro extra di carbon tax su benzina e gasolio; una tassazione dei veicoli più che proporzionale ai rispettivi consumi; e quant'altro la fantasia vi riveli. Insomma serve intervento pubblico; laddove per Shell le emissioni Scope 3 non possono che essere e restare un'esogena. E dunque il Giudizio non può che andare a interferire con l'offerta. Se Shell non ha il controllo di Scope 3 la principale variabile che le resta da manovrare a fini di propria decarbonizzazione è la produzione. Spogliarsi di propri assets produttivi. Attenzione però. Se la domanda non flette o cambia, per Shell “spogliarsi” vuole dire vendere, non chiudere. E difatti, in ossequio alla sentenza, già sembra che ci stia provando. L'indiscrezione autorevole viene da Cnbc, ed è di domenica 13 giugno. Shell starebbe considerando la vendita di assets produttivi negli Stati Uniti per un controvalore stimato di 10 miliardi di dollari. Laddove l'effetto netto della vendita sarebbe a fini olandesi una diminuzione percentuale secca delle emissioni di Shell; ma a fini nostri a emissioni globali invariate (assumendo costante la domanda). Se non cambia la struttura della domanda gli interventi sull'offerta si risolvono in definitiva in un cambiamento dei produttori a parità di produzione (e difatti, tra gli altri, Bloomberg Green ha recentemente sottolineato come i produttori nazionali soprattutto mediorientali stiano mettendo in cantiere investimenti per nuove produzioni cui farebbe spazio la ritirata delle Majors occidentali). Con i produttori che sempre più assumeranno come condizioni dell'agire il risiedere in giurisdizioni i cui giudici non normano.
Che poi laddove invece normano rischia di finire che sono pure emissivamente inefficaci.
Chiamatelo, se volete, greenwashing giudiziario.