La guerra in Ucraina e il conseguente aggravarsi della crisi energetica già in atto stanno avendo impatti pesanti sull'Europa, per le vittime e la distruzione nel Paese invaso, la crisi dei profughi, il rallentamento dell'economia e l'inflazione. Tra le conseguenze innescate dall'invasione c'è nel contempo un ripensamento potenzialmente profondo degli equilibri internazionali, anche energetici. Un quadro in cui l'Italia e l'Eni in particolare potrebbero giocare un ruolo che solo fino a poco tempo fa sarebbe parso fuori portata.
“Eni e UE, convergenza d'interessi” era il titolo di un editoriale della Staffetta di dicembre 2015. Secondo cui proprio in quei mesi si offriva al Cane a sei zampe l'opportunità di mettersi, con proprio vantaggio, al servizio degli obiettivi europei di uscita dal carbone e riduzione della dipendenza dal gas russo (nel 2014 la Russia aveva occupato la Crimea).
Tre mesi prima, in un intervento in Parlamento, lo stesso a.d. Descalzi era stato abbastanza esplicito: “Il gas russo continua ad avere il suo senso dal punto di vista del prezzo” ma al tempo stesso “per l'Europa è necessario cercare una diversificazione”. Aveva quindi ricordato le scoperte fatte dal gruppo in Nordafrica e Subsahara, sottolineando che Italia e Spagna potevano diventare un hub del Sud Europa e che occorre “promuovere strategicamente l'area del Mediterraneo”.
Nei nove anni di guida del gruppo del suo predecessore Scaroni, si fatica a ricordare un'occasione in cui il vertice Eni abbia parlato della Russia come un fattore da ridimensionare. Su questo però Descalzi ha evidentemente idee diverse.
Da quando l'anno prima Renzi lo aveva chiamato alla guida di Eni, ha ripetuto spesso che lo scopo del gruppo non dev'essere vendere gas “di altri”, ma il proprio, cioè quello scoperto ed estratto direttamente. In primis quello dell'Africa, dove negli anni precedenti come direttore upstream Descalzi ha firmato successi di rilievo, ultimo dei quali il “gigante” Zohr in Egitto.
Perciò, quanto riportato nei giorni scorsi dal quotidiano La Repubblica in un articolo intitolato “Gas dall'Africa invece che russo. Il piano di Eni per l'indipendenza”, raccontando delle alternative prospettate dal gruppo al governo Draghi, dall'Algeria, al Congo, all'Angola, non è certo frutto di una pensata estemporanea.
Nell'articolo non si nominano altri paesi, come il Mozambico, in cui la produzione di Gnl Eni in partenza quest'anno è in effetti già venduta per 20 anni alla BP, o lo stesso Egitto dove la priorità dichiarata è rifornire il mercato interno (senza contare che il secondo azionista di Zohr è la russa Rosneft), ma da cui ugualmente negli ultimi anni qualche metaniera da Damietta ha già iniziato a raggiungere l'Italia.
All'Italia in generale - e senza con ciò mettere in discussione la transizione energetica, che nei prossimi anni ridurrà la dipendenza di Italia ed Europa dal gas e dagli idrocarburi - sembra offrirsi l'opportunità di un ruolo da protagonista in questo nuovo scenario.
Se dopo la crisi della Crimea del 2014 l'Europa non aveva davvero cambiato rotta, col raddoppio del Nord Stream avviato a spostare a Nord e in Germania il baricentro del gas del Vecchio Continente, ora il problema della dipendenza da un partner inaffidabile e pericoloso ha acquisito tutt'altro rilievo nella consapevolezza comune, rendendo prioritaria una ricerca di alternative che non siano solo il Gnl Usa.
Purtroppo negli ultimi anni l'Italia ha sempre più voltato le spalle al Mediterraneo, a cominciare dalla Libia, perdendo terreno. Potrebbe essere un'occasione per invertire la tendenza.