Da alcune settimane circolano con insistenza nei dibattiti e sui c.d. social network espressioni di soddisfazione per gli effetti che la crisi globale del covid-19, col suo carico di vittime, stress per i servizi sanitari e paralisi economica, sta avendo per i sistemi energetici convenzionali, a cominciare da consumi e prezzi degli idrocarburi. Con una tale insistenza che viene da chiedersi cosa ci sia da festeggiare.
Se lo chiede oggi, tra gli altri, un commento del Financial Times, che fa notare gli impatti devastanti che il crollo del prezzo del greggio, innescato dal coronavirus e aggravato dal duello tra i grandi produttori mondiali, avrà nell'immediato sui Paesi poveri fortemente dipendenti dall'export di greggio, che dovranno affrontare l'emergenza covid proprio mentre i loro bilanci vanno incontro al collasso.
Ma lo stesso può dirsi del calo dell'inquinamento da NOx nelle nostre spettrali città, salutato come prova generale di chissà quale palingenesi. Il direttore dell'Agenzia Ue per la protezione ambientale Hans Bruyninckx nei giorni scorsi ha dovuto avvertire che se lo smog sta calando, al tempo stesso “affrontare nel lungo periodo i problemi di qualità dell'aria richiede politiche ambiziose e investimenti lungimiranti” e “l'attuale crisi e i suoi molteplici impatti sulla nostra società lavorano contro ciò che stiamo cercando di conseguire, che è una transizione giusta e ben gestita verso una società resiliente e sostenibile”.
Analogo discorso, ancora, può valere per altri aspetti delle politiche di sostenibilità. Come gli investimenti nelle rinnovabili, che difficilmente beneficeranno dei prezzi stracciati di gas e petrolio. “Il collasso dei prezzi dell'elettricità ha messo in stallo diversi power purchase agreements (Ppa) in Uk, Italia, Spagna, Paesi Nordici e Germania”, si legge in un articolo del Platts della scorsa settimana, che cita la società di consulenza sui Ppa Pexapark. La rivista del solare PV Magazine da giorni riporta posizioni analoghe.
Detto in una frase: l'emergenza covid, che inevitabilmente dirotta energie e risorse verso il contenimento della crisi sanitaria, è per molti versi la peggiore delle condizioni possibili per affrontare efficacemente le sfide ambientali di lungo termine. Sei mesi fa il principale ostacolo a un accordo vincolante sul clima era la resistenza dei governi, ma le condizioni per raggiungerlo erano comunque assai migliori di oggi, che la Cop26 non si svolgerà neppure e il comprensorio che doveva ospitarla sta diventando un ospedale.
Poi, certo, potrebbero esserci anche le opportunità, forse anch'esse senza precedenti, come la situazione che stiamo vivendo. Si può dire, ad esempio, che l'attuale fase, tra crollo dei prezzi dei fossili e spesa pubblica imponente, offre un'occasione per tagliare i sussidi alle fonti fossili, come hanno fatto la scorsa settimana Ferruccio De Bortoli e Enrico Giovanninni sul Corriere della Sera (tra i primi a dirlo, su Twitter il 13 marzo, era stato l'a.d. di Enel Starace).
Anche qui però non bisogna dimenticare il contesto, che richiede un livello di attenzione, precisione nelle scelte e nel valutarne le conseguenze a sua volta senza paragoni, perché errori o leggerezze possono avere gravi conseguenze.
La semplice contabilità della spesa e dei margini teorici di manovra, richiamata nell'articolo - che in questo assomiglia a tanti letti in questi anni - non è da sola una base sufficiente, bisogna entrare nel merito del cosa tagliare, quanto e quando, a quale prezzo, con quali conseguenze sulla ripresa e quali contromisure. Quella “seconda metà” del ragionamento che in questi anni è spesso mancata negli appelli sui sussidi, e che a maggior ragione non può mancare ora. Non ce lo possiamo permettere.