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Vita delle Società - Associazioni

di Roberto Macrì

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L'Eni dei misfatti scordando i fatti. Un racconto a metà

Il commento di Roberto Macrì a “Lo Stato Parallelo”, di Andrea Greco e Giuseppe Oddo

Vita delle Società - Associazioni

Nel sottotitolo del libro “Lo Stato Parallelo”, Andrea Greco e Giuseppe Oddo promettono la “prima inchiesta sull'Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre” che sulla Staffetta del 18 giugno scorso ha già trovato il commento di Giorgio Carlevaro e la recensione critica di Alberto Clò (v. Staffetta 17/06). Il racconto è un impasto così denso di fatti e di misfatti che arrivati alla fine delle 343 pagine è molto difficile sbrogliare una matassa così intricata. Si può cominciare osservando che la promessa è mantenuta. Il racconto della storia dell'Eni si snoda infatti lungo un filo ininterrotto di scandali, corruzioni, segreti inconfessabili, complotti e tanti morti senza colpevoli. Una sequela infinita di misfatti che fanno dell'Eni una sorta di Spectre che agisce appunto come uno Stato parallelo, qualche volta al servizio dello Stato legittimo ma sempre in modo occulto e anche contro gli interessi nazionali. Senza nulla togliere al minuzioso lavoro di indagine vi è però da dire che nessuno di questi misfatti è inedito, di inchieste sugli scandali dell'Eni sono piene le biblioteche e gli archivi dei giornali a cui il libro aggiunge semmai altre informazioni ma per il lettore attento alle cose dell'Eni il risultato non cambia.

La Russia

Fa eccezione solo, ed è motivo sufficiente per comprare il libro, la parte che riguarda i rapporti con la Russia e le ex Repubbliche sovietiche nei nove lunghi anni, mai rimpianti, della gestione Scaroni (2005 -2014). Voluto da Silvio Berlusconi come longa manus della sua politica estera e dei suoi affari, all'ombra della sua amicizia con Putin, Scaroni accettò un ruolo subordinato dell'Eni nella politica energetica tant'è che “Berlusconi e Tremonti misero l'Eni al guinzaglio governativo” (pag. 171). Fanno qui impressione per qualità e dettaglio le tante rivelazioni di Mario Reali che resse l' ufficio Eni di Mosca per molti anni, sugli affari con Gazprom, con la Cecenia, con il Kazakhstan dove l'interesse dell'Eni appare completamente sottomesso ad interessi estranei, illegittimi ed occulti sacrificando l'autonomia e la reputazione dell'azienda agli interessi dell'Italia. E sorprende che una tale mole di informazioni importanti e precise sulle circostanze e sui nomi di uomini di affari e della politica siano passate sinora nel silenzio delle istituzioni e della magistratura. Questa sorta di Spectre post sovietica, con o senza intenzione dei due autori, illumina il contrasto tra la gestione oscura di Scaroni e la trasparenza dei precedenti 15 anni di Franco Bernabè (1991-99) e Vittorio Mincato (1999-2005). Mincato cade perché si oppone a tutto questo ed è questa la sua medaglia al valore. Un'inversione di rotta quella di Scaroni raccontata e criticata anche per altri aspetti oscuri come gli acquisti usati con troppa discrezionalità e le spese di pubblicità cresciute a dismisura per creare consenso personale anteposto agli aspetti aziendali. Aggiungo di buon peso la malaccorta privatizzazione di Snam che tanto dispiacque a Marcello Colitti con solidi argomenti ripetuti su queste pagine. Va però anche detto che la troppa attenzione agli acquisti e alla pubblicità non furono inventati da Scaroni; ad ambedue gli aspetti dette molta importanza già Enrico Mattei che ne volle il diretto controllo, con finalità però sempre di interesse aziendale, ma anche lo stesso Franco Reviglio “risanatore” che non sfuggì alla tentazione di un consistente budget pubblicitario orientato non solo all'immagine aziendale e che non varò il sistema di controllo degli acquisti preparato dalla holding in largo anticipo sulle operazioni di cost cutting che improntarono le gestioni di Bernabè e di Mincato.

Eugenio Cefis

Uguale peso viene dato ai misfatti di Eugenio Cefis ma qui niente di nuovo, su Wikipedia le accuse e i sospetti su Cefis sono addirittura di più. Una vasta letteratura negativa culminata nel libro “Questo è Cefis, l'altra faccia dell'onorato Presidente” edito nel 1972 e sparito subito dalla circolazione e “Petrolio” scritto da Pasolini che non fece in tempo a finirlo e che secondo alcuni fu causa della sua morte. Cefis a capo della Spectre? Infiltrato nella guerra partigiana dai servizi segreti? Mandante dell'omicidio di Mattei? Capo occulto della P2? Stratega di un modello costituzionale autoritario? Congiurava contro di lui la segretezza maniacale, l'apparato d sicurezza fatto anche di uomini dei servizi segreti, lo stile di comando dispotico, la spregiudicatezza negli affari, l'abilità nell'esercizio del potere. Era un protagonista del grande gioco delle elites che muovono nel retroscena tante leve nel governo del nostro Paese. Ma per quanto siano gli indizi, che autorizzano ogni sospetto, farne il Diavolo artefice di tutte le trame d'Italia senza averne le prove ce ne corre. Meglio stare ai fatti.

A capo dell'Eni nei dieci anni dopo la morte di Mattei da vice di Boldrini (1962-67) e da presidente (1967-71) mantenne la rotta pur dovendo recuperare lo squilibrio finanziario di grande parte degli investimenti, soprattutto minerari, non ancora a reddito, resse il Gruppo con mano ferma e mantenne piena autonomia da partiti con la stessa durezza e spregiudicatezza di Mattei. E nel lavoro era noto per la estrema attenzione alla gestione e all'organizzazione. A suo vantaggio la considerazione che ne avevano dirigenti di vertice come Marcello Colitti ed Egidio Egidi che collaborarono strettamente con lui per molti anni ed erano noti per la loro etica e indipendenza di giudizio e per il seguito che seppero dare all'eredità di Mattei. Traggo dal numero 2/2013 della rivista Energia diretta da Alberto Clò in quella parte dedicata “In memoria di Egidio Egidi” l'idea che Egidi s'era fatto di Cefis in due punti dell'intervista dello stesso Clò. A proposito della sua personalità Egidi dice: “ho sempre ritenuto il dr Cefis un personaggio di grande capacità e di leadership…stimava chi aveva il coraggio delle proprie azioni...non stimava gli yesmen”; e a proposito dell'idea di Cefis nel '63 di smobilitare l'attività mineraria per diminuire il fabbisogno finanziario e approvvigionarsi a buon prezzo dalla Sette Sorelle Egidi ricorda: “mi opposi fermamente argomentando che non volendo finanziare la nostra ricerca avremmo finito per finanziare quella delle altre compagnie petrolifere..uscendo dal mercato della ricerca non avremmo più potuto rientrarci...riuscii a convincere Cefis a proseguire l'attività di ricerca”.Tratti professionali che stridono con il ritratto di uomo diabolico ed Egidi era uomo d'onore, lontano le mille miglia da trame e sotterfugi.

Stando sempre ai fatti a discapito di Cefis c'è l'uscita precipitosa dall'Eni nel 1971 per andare in Montedison a giocare la grande partita della chimica nelle mani di Enrico Cuccia e la pretesa di continuare ad esercitare ancora il comando sull'Eni standone fuori. Questo è il punto oscuro della personalità di Cefis che culminò poi nella partita disastrosa dell'Enimont e nel suo misterioso esilio in Kenya e in Canada. Mi rendo però conto che se questo fosse un processo, fatti noti nel bene e nel male non sono abbastanza da togliere peso ai tanti indizi e sospetti su Cefis ma senza giudici e senza prove non resta che il proprio convincimento. Ma quello che non può essere accettato è che il ritratto tutto in nero che ne fanno Greco e Oddo sporchi l'intera storia dell'Eni.

Sembra questa l'immagine che resta dell'Eni in un racconto a metà. Tutto il libro è centrato infatti sulle gestioni virtuose d Bernabè e Mincato, ambedue successive alla privatizzazione nel 1992 e ambedue sulla scia della presidenza Reviglio (1983-89), quella che segnò il passaggio dal primo al secondo tempo della storia dell'Eni. Un tempo virtuoso messo a contrasto prima con la figura diabolica di Cefis e dopo con i nove anni oscuri di Scaroni. Come un intervallo di luce in una stanza buia, oscurando tutti i 29 anni precedenti. Come se un film cominciasse dal secondo tempo. Come se il racconto fosse fatto di mezze verità.

Il primo tempo

È qui la critica fondamentale al libro. Se l'Eni nella sua lunga storia è stata una Spectre con azioni occulte di vera e propria criminalità organizzata, come ha fatto a diventare un'azienda internazionale di prima grandezza e la prima in Italia? Vuol dire allora che prima di Reviglio, Bernabè e Mincato, che ne furono i naturali eredi , l'Eni era tutto da buttare? Una volta esaurita la spinta di Mattei? Non è affatto così. Perché è proprio nel racconto di quei 29 anni che si capisce come è andata dopo e anche come siamo arrivati al tempo d'oggi. I primi nove anni della presidenza Mattei tracciarono le strategie e costruirono le strutture che ancora oggi reggono il Gruppo. Il modello della holding e delle caposettore venne messo a punto da Mattei con l'americana Booz Allen incaricata di studiare una soluzione che non togliesse alle società autonomia e iniziativa e all'Eni la guida strategica e le due redini di governo del gruppo, investimenti e finanza. Quando a pag. 60 a proposito della resistenza dei presidenti delle società caposettore al potere di Bernabè, primo amministratore delegato di Eni Spa privatizzata, che “per loro la società madre, l'Eni holding, era un corpo estraneo concepito da Mattei per assumervi i raccomandati dei partiti” si fa un vero torto a quella storia. Fino a che l'Eni conservò autonomia e prestigio la holding era motore e controllore di tutto il Gruppo con grande efficacia. Sono le parole di Egidi come le ricorda Claudio Descalzi: “nel corso di quindici anni erano state create da Mattei delle basi di comportamento e di leadership tali che non poteva non esservi una continuità di strategia e di filosofia nella conduzione del Gruppo”. È in queste sue parole il segreto che spiega come l'Eni sia sopravvissuta alla scomparsa di Mattei e alla terribile crisi che sconvolse il vertice al ponte di comando tra il 1977 e il 1982 fino all'arrivo di Reviglio .

La rottura

Dopo Mattei e per quindici anni sotto quattro presidenti l'Eni mantenne strategia e indipendenza. L'Eni era artefice del suo destino e semmai criticata per l'influenza che esercitava sulla politica piuttosto che il contrario. Né i partiti avevano alcuna voce in capitolo nella scelta dei dirigenti, bussavano ma non entravano. Nel 1977 sotto la presidenza di Sette (1975-79) le cose cambiano definitivamente, si apre una crisi al vertice che infligge all'Eni una ferita alla propria indipendenza che non verrà più rimarginata. Tutti gli osservatori datano la crisi al 1979 con lo scandalo Petromin e la caduta di Mazzanti ma è invece nel 1977 che si consuma il vero e proprio vulnus all'indipendenza organizzativa e strategica dell'Eni quando per la prima volta è costretta ad assorbire stabilimenti e miniere di metalli non ferrosi dell'ex Egam (la Samim) per imposizione della politica. Vi fu uno scontro duro tra Colitti dalla parte di chi riteneva quelle attività non compatibili con la strategia dell'Eni e Leonardo Di Donna dalla parte delle ragioni della politica (Staffetta n. 167 del 19 settembre2015) e Pietro Sette si arrese. È vero che prima di allora l'Eni aveva già assorbito Nuovo Pignone, Lanerossi e Italgas ma basandosi su ragioni industriali di integrazione con l'energia che nei due casi della meccanica e della distribuzione del metano si rivelarono un successo. L'Eni divenne da allora non più artefice del proprio destino ma preda nello scontro politico per prenderne il controllo. Che il vento fosse cambiato lo capì ancora una volta Egidio Egidi che nel 1978 lasciò l'Eni da amministratore delegato dell'Agip avvertendo, come ricorda il figlio, che “erano iniziate le degenerazioni della politica partitocratica con le sue ramificazioni nelle aziende di Stato” e che “accettare quelle nuove regole del gioco avrebbe significato piegarsi ad un compromesso che avrebbe inquinato i principi in cui credeva”. L'intrusione della politica nel ponte di comando delle aziende di Stato ebbe conferma quando nel 1979 il cedimento del '77 divenne voragine con lo scandalo Petromin, l'arma usata per regolare i conti interni ai due partiti, affermare il predominio dell'uno o dell'altro costringendo Giorgio Mazzanti, appena nominato ”in quota” Psi, alle dimissioni. E qui inizia un calvario di quattro anni con la nomina di due commissari straordinari, Egidi (1979-80) e Luca Gandolfi (1982) e di due presidenti, Alberto Grandi (1980-82) e Umberto Colombo (1982-83) con il proposito dei Governi di allora di ristabilire un ordine interno con uomini di estrazione Eni. Egidi e Gandolfi presero atto delle divisioni interne nella dirigenza legate a interessi partitici che nulla avevano a che fare con l'interesse dell'Eni. Grandi fu “cacciato” dal ministro Gianni De Michelis senza altro motivo se non l'affermazione di un interesse partitico. Colombo si dimise appena si rese conto di essere avversato dall'interno e addirittura di essere stato spiato. Fu in quella lunga crisi che si manifestò la forza della struttura operativa del Gruppo che mantenne in piedi attività e programmi interpretando al meglio la lezione di responsabilità e di iniziativa della scuola Mattei. Descalzi, ispirato dall'esempio di Egidi, così scrive: ”l'azienda è per le persone di Eni molto più di un luogo di lavoro, è un valore, un patrimonio che è dentro ognuno di noi e che ci spinge a impegnarci ogni giorno per essere sempre i primi”. E tuttavia con il dovuto rammarico bisogna prendere atto che l'esito drammatico di questo primo tempo chiude definitivamente la storia di Mattei, l'azienda perde la sua indipendenza e nella scelta di uomini e strategie la caratura professionale è sottomessa alla politica nella versione bassa degli interessi partitici. Se non si capisce questo passaggio non si capisce quello che avviene dopo.

Il secondo tempo

Bruciate le candidature interne con Reviglio inizia il secondo tempo. Non è in discussione il valore della sua gestione, fece il meglio che poteva per riportare ordine nei conti e trasparenza nell'organizzazione dopo lo sconquasso. Ma non era una scelta neutrale, era una candidatura di parte. Non è in discussione la trasformazione in Spa degli Enti di gestione e la successiva privatizzazione che danno all'Eni una maggiore autonomia sul piano giuridico. Ma come non vedere le interferenze continue della politica attraverso la golden share che riserva al Governo, giustamente in principio, la nomina degli Amministratori? Anche sulla nomina di Bernabè resta il timbro di un partito a meno di non credere alla versione di pag. 60 secondo cui ”con la designazione di un manager senza tessera di partito, Amato aveva infranto il patto che attribuiva al Psi il diritto di fatto a nominare la più alta carica dell'Eni...lo stesso Craxi dovette ammettere di non conoscere Bernabè” .Con ciò non è in discussione la radicale bonifica di Bernabè che ha liberato il gruppo da tante partecipazioni spurie eredità dell'Eni politicante, ha messo ordine nella finanza estera e ha ridotto drasticamente i costi razionalizzando l'organizzazione. Succede Mincato che dimostra quanto valga il management Eni facendo i bilanci migliori della storia del Gruppo e rifocalizzando la missione mineraria. Sembra tornata con lui la regola del primo tempo di promuovere in plancia di comando gli uomini dell'Eni. Ma purtroppo non è così. Le interferenze dei Governi Berlusconi lo estromettono perché “troppo indipendente” scegliendo Scaroni che garantisce dipendenza. Con Renzi il vento è cambiato e ora c'è Descalzi che rinnova la regola del management interno. Ma durerà alla prossima stagione delle nomine?

Scandali e misteri

Il film visto dall'inizio cambia il punto di vista. L'Eni del primo tempo mette giù di notte la rete del metano contravvenendo i regolamenti comunali, si potrebbe chiamare un'opera di semplificazione ante litteram. Non c'è corruzione, non ci sono complotti né segreti. All'estero l'Eni cambia i contratti di esplorazione e produzione trasformando radicalmente il mercato dell'energia e aprendo opportunità per l'industria italiana nel Medio Oriente e in Africa. Opera in concorrenza e si serve degli stessi strumenti delle Sette Sorelle, per fare i contratti passa dalle intermediazioni “obbligate” dai Governi dei paesi produttori ma non vi è traccia di corruzione e soprattutto di ritorno di tangenti nelle tasche degli italiani. Certo neanche l'Eni del primo tempo è una vergine ingenua, si batte con tutti i mezzi per affermarsi nel grande gioco del petrolio dove i colpi bassi sono la regola. E dell'Eni del primo tempo non si può neanche dire che fu uno Stato parallelo. In un Paese lacerato e diviso da una guerra perduta e da una guerra civile continuata con altri mezzi fino ai tempi nostri, l'Eni fece il suo gioco sostenendo le forze politiche che gli erano favorevoli, conducendo una attività di pubbliche relazioni molto efficace per proteggere l'azienda. Si può dire di quel tempo che le azioni erano spregiudicate ma non che l' Eni agendo in questo modo abbia danneggiato gli interessi dell'Italia. Mai.

È invece nel secondo tempo che tutto cambia in peggio dopo la terribile crisi tra il 1979 e il 1982 quando l'Eni cade preda dei partiti. È allora la stagione ininterrotta dei grandi scandali. È l'Eni in mano ai partiti che assomiglia ad una Spectre. Ma qui è l'errore di prospettiva. Perché in tanto disastro giudiziario non si può dimenticare il merito di una struttura organizzativa che ha resistito e resiste a scandali e misteri operando con tenacia a protezione dell'interesse aziendale. Come dimostrano i risultati. È da qui che una grande politica dovrebbe ripartire per ridare all'Eni lo spazio di iniziativa che la sua storia merita.




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