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Politica energetica internazionale
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Le questioni aperte dopo le tre emergenze

Spazzate via le certezze premature, è ora di porsi le domande giuste

Le ricorrenze servono per sollevare lo sguardo dall'attualità e allargare l'orizzonte a riflessioni più ampie, per valutare le opzioni disponibili e le linee di azione praticabili senza limitarsi a rispondere agli stimoli delle emergenze. Riprendendo alcune sollecitazioni arrivate a valle dell'evento per i 90 anni della Staffetta, torniamo perciò sui temi del numero speciale e sulla panoramica del quindicennio 2008-2023. A partire dal tema centrale, quello della difficile sintonizzazione tra le esigenze della sicurezza energetica, dell'economicità e della transizione, in un equilibrio sempre instabile tra i pilastri del trilemma energetico.

Nel ripercorrere gli eventi del quindicennio è emerso un baricentro nel 2015, l'anno dell'Accordo di Parigi sul clima, del dieselgate e dell'Enciclica Laudato si' di papa Francesco. Non solo un baricentro aritmetico ma un vero e proprio spartiacque: dal 2015 in poi l'Europa dà seguito agli impegni di Parigi. Tutti gli altri molto meno, o per niente.

Dal 2015, almeno in Europa, parlare di fonti fossili diventa quasi un tabù, nonostante siano ancora le fonti fossili a far andare avanti il mondo. Si cancellano le parole ma restano le fonti. E restano per lo più “non governate”, fuori dall'attenzione del dibattito pubblico, mentre vengono bandite dalla comunicazione aziendale della major. Un approccio esclusivo, aut-aut, che solo negli ultimi anni, dopo le tre grandi emergenze, ha lasciato spazio, anche nella comunicazione aziendale, a un approccio inclusivo, et-et.

Tra oggi e il 2050 si estende un “frattempo” che sembra sfuggire all'elaborazione del discorso pubblico europeo. Da una parte c'è l'Europa con le sue tabelle di marcia sempre più serrate, dall'altra parte c'è il resto del mondo che continua ad andare per la propria strada.

Una strada che può essere tratteggiata da alcune grandi dinamiche. A cavallo del 2010 negli Stati Uniti si dispiegano gli effetti della rivoluzione shale: gli Usa diventano primo produttore petrolifero, il gas inonda il mercato interno e spiazza il carbone, per poi fluire sempre più copioso in Europa e nel resto del mondo.

Il carbone continua a guidare lo sviluppo in Cina. Il colosso asiatico anche grazie al basso costo dell'energia diventa il fornitore globale di tecnologie per la transizione, dai moduli fotovoltaici negli anni dieci alle batterie e alle auto elettriche oggi.

I produttori di petrolio non stanno a guardare, con l'Opec che cerca di allargare il cartello attraverso l'inedita alleanza con la Russia.

Mentre dunque i principali attori globali pensano a puntellare l'indipendenza energetica e le rispettive posizioni negli scacchieri globali, l'Europa, per così dire, si immagina indipendente grazie alla transizione. Un'indipendenza tutta proiettata nel futuro.

Il culmine di questo “doppio binario”, in cui l'Europa ha gli occhi fissi al 2050 e il mondo sembra andare ostinatamente in un'altra direzione, è il 2018. Nel 2018 Greta Thunberg inizia gli scioperi per il clima, mentre in Francia esplode il fenomeno dei gilet gialli. Nel settembre del 2019 la crisi climatica arriva sulla copertina dell'Economist e diventa mainstream: da quel momento in poi non si può più parlare di energia senza parlare di clima.

Questa fase però dura poco: a dicembre 2019 arriva infatti il Covid in Cina. La pandemia è la prima delle tre emergenze che faranno collassare il discorso pubblico sulla transizione, riportando in primo piano gli altri due pilastri del trilemma energetico. Dopo la fase acuta della pandemia farà premio su tutto la necessità di rimettere in moto l'economia, mentre si inizia a riparlare di intervento pubblico, di debito comune europeo, di costruzione di filiere strategiche, di sovranità industriale dell'Europa.

A inizio 2021 i prezzi energetici cominciano a salire. Gli stoccaggi europei di gas sono vuoti, Gazprom non li ha riempiti, ma anche gli altri operatori, per motivi economici, lo hanno fatto meno che in passato. E nessuno ha suonato l'allarme. Con un tempismo non felicissimo, a maggio 2021 l'Aie esce invece con il rapporto “Net Zero”, che indica tra le condizioni per arrivare alla neutralità climatica al 2050 – e quindi per limitare a 1,5 gradi l'aumento delle temperature – lo stop immediato a nuovi investimenti in fossili. Con la crisi dei prezzi il pilastro dell'economicità delle forniture torna in primo piano. Con l'invasione russa dell'Ucraina gli si affianca la questione della sicurezza degli approvvigionamenti. E la transizione sembra finire sullo sfondo.

“Sembra” perché, nel frattempo, le rinnovabili trovano proprio nella crisi dei prezzi un alleato insperato. Una delle conclusioni che si possono trarre da questa carrellata è infatti che accanto ai rapporti Ipcc, agli obiettivi europei, alle semplificazioni, la spinta alla transizione, probabilmente quella decisiva, la dà il prezzo. Quando i prezzi del gas sono schizzati, produttori e consumatori si sono messi a cercare un'alternativa. E l'alternativa c'è, almeno per l'elettricità, ed è il fotovoltaico. Da questo dipende il boom degli ultimi due anni, come quello del 2009-11 dipese dagli incentivi. Un boom determinato dall'aumento vertiginoso dei progetti e delle istanze, che ha spinto le Regioni ad aumentare e velocizzare le autorizzazioni – perché la spinta non è arrivata né dal ministero, né dalla commissione Pniec-Pnrr né da Palazzo Chigi, ma dalle bistrattate Regioni.

In conclusione, mentre le emergenze sembrano attenuarsi, le domande sull'equilibrio del trilemma restano per lo più aperte. A partire dal gas: ci serve, ma per quanto tempo? E come faremo a garantirci le forniture? Anche le raffinerie ci servono, ma come facciamo a mantenerne la competitività? Le rinnovabili crescono, ma a fare i prezzi elettrici è ancora il gas. Come sarà fatto un mondo energetico dominato dalle rinnovabili, un mondo in cui a fare il prezzo è il fotovoltaico?



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