Questa mattina mentre scriviamo è in corso al G20 a presidenza italiana il più duro dei confronti in programma tra i paesi industrializzati, quello sul clima. Duro, come ha spiegato ieri il “padrone di casa”, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, per l'estrema difficoltà di avvicinare posizioni lontanissime. Ma anche per il prezzo insostenibile del non riuscirci: non solo il fallimento della lotta al riscaldamento globale, ma anche che l'enorme sforzo che l'UE sta mettendo in campo si traduca in un inutile (e fatale) colpo per la sua economia.
"L'Europa fa investimenti ingenti per decarbonizzare – diceva ieri a Napoli Cingolani – ma produce solo il 9% della CO2. Ha un'ottima leadership nello sforzo, ma non basta. Se altri paesi non aderiscono, le loro emissioni compensano i nostri tagli, il sistema salta, e noi intanto ci siamo svenati". Nel contempo, ha aggiunto, “dire che tutto va giocato in questa decade, e che dobbiamo restare tutti uniti - come convenuto ieri nell'incontro con l'inviato Usa Kerry - è un bel problema da negoziare al G20", in particolare viste le posizioni di Cina, Russia e paesi emergenti.
Questa capacità di Cingolani di sintesi della complessità, senza ignorare contraddizioni e questioni aperte, rappresenta da sempre il punto distintivo dell'azione del ministro e, si potrebbe dire, è forse la vera sostanza del suo ruolo.
Portavoce e “frontman” del Governo nel permanente (e infuocato) dibattito sulla transizione: questo, a riguardare i primi cinque mesi di Cingolani ministro, sembra il suo profilo nell'esecutivo. Non tanto quindi di proposta e gestione attiva della transizione, le cui leve decisive sembrano essere altrove - a Palazzo Chigi, al ministero dell'Economia, tutt'uno con quelle del Pnrr (e questo per molti aspetti è un problema, come si dirà tra poco). Quanto di rappresentanza all'esterno, verso le forze politiche e la società civile, della linea dell'esecutivo sulla transizione, motivandola, catalizzando se necessario le critiche e di queste tenendo conto ogni volta che è possibile, ma anche respingendole ogni volta che è necessario.
Sintesi, si diceva, che non ignora la complessità e la necessità di contemperare più obiettivi - sostenibilità ambientale, ma anche economica e sociale. Un concetto che rinvia alla visione “olistica” invocata in alcuni suoi interventi già prima di diventare ministro. E che non dev'essere stata secondaria nella scelta di designare proprio lui per il nuovo Mite, la cui creazione, si ricorderà, era stata posta dal M5S come condizione per appoggiare il nuovo governo. Ma che in nessun caso Draghi poteva accettare finisse in balia di spinte massimaliste e incapaci di dialogo.
“Non ho nessun partito alle spalle”, spiegava lui stesso giorni fa commentando i malumori del M5S, primo sponsor della nascita del suo ministero, ma a volte deluso dalle sue posizioni. “Io cerco semplicemente di fare del mio meglio per raccogliere le istanze che arrivano e trovare una sintesi: una volta si scontenta uno, una volta l'altro”. E ancora in un'altra occasione: "Io, finché servo, lavoro. A un certo punto nessuno è indispensabile e io sono meno indispensabile degli altri. Non mi sento particolarmente a mio agio in questo ruolo, sono responsabilità che mi prendo".
Un ruolo dunque per lo più di “relazioni istituzionali”, cui si aggiunge l'azione di impulso a una maggiore efficienza e reattività della burocrazia, su cui il giudizio è in chiaroscuro, tra lo smaltimento del pregresso che sembra andare avanti speditamente per quanto riguarda le valutazioni ambientali dei progetti (energetici e non) e la posizione di fanalino di coda nella relazione della Presidenza del Consiglio sul mese di giugno quanto all'emanazione di decreti attuativi (zero provvedimenti su un target di 10, v. Staffetta 16/7).
Tutto questo lascia un fianco scoperto, il ruolo cioè che per mandato spetta al ministero, quello di punto di riferimento quotidiano e operativo per gli operatori del settore. Tra questi ultimi – almeno quelli che non hanno la forza per interloquire direttamente con la cabina di comando di Palazzo Chigi – si registra un certo disorientamento, per il fatto di non capire più se e in che misura il Mite rappresenti ancora un interlocutore per le loro istanze e per i loro problemi di tutti i giorni. Un problema certo complicato anche dagli effetti della riorganizzazione, degli avvicendamenti nei ruoli apicali e del sottodimensionamento degli organici, frutto di anni di stasi negli afflussi di nuove forze e competenze. Ma che lo stesso richiederebbe uno sforzo maggiore.
La sensazione generale è che i giochi si facciano altrove. Sensazione rafforzata, si potrebbe notare, anche dall'assenza dalla scena del Cite, quel comitato interministeriale per la Transizione ecologica che pareva dovesse essere un fulcro dell'azione governativa su questi temi e che invece finora si è riunito una volta sola. Anche perché fatica oggettivamente a trovare uno spazio, tra il sistema di governance del Pnrr, il Cipess e ora i gruppi di lavoro che il ministro degli Affari europei Vincenzo Amendola ha annunciato per lavorare sulle proposte europee del pacchetto Fit for 55.
Insomma, tra i tempi contingentati di attuazione del Pnrr, le scadenze europee, le necessità della ripresa e l'assenza di una forza politica alle spalle, il ministro sembra a volte in balia di polemiche e pressioni. A Cingolani non difetta certo la capacità di destreggiarsi, almeno concettualmente, in scenari complessi. C'è da auspicare, anche con l'arrivo di forze fresche al ministero, che si faccia più sensibile la presenza quotidiana e operativa del Mite nei confronti del settore energetico.