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Se il contribuente finanzia la transizione, partecipi anche ai proventi

L'audizione di Massimo Nicolazzi alla Camera

Massimo Nicolazzi
Massimo Nicolazzi

I piani di ripresa non sono economia del “dono”, ma debito. Per questo vanno usati per creare valore, scegliendo i progetti con i più alti moltiplicatori ambientali e di ricaduta economica, e anche per conservarlo nel tempo. Magari invitando il contribuente, che finanzia la transizione, a partecipare ai proventi. Lo ha sostenuto oggi Massimo Nicolazzi in commissione Attività produttive della Camera intervenendo in audizione sulla transizione energetica in qualità di esperto di energia e docente di Economia delle fonti energetiche presso l'Università di Torino. Di seguito il testo integrale dell'intervento.

La bozza di risoluzione usa dei colori dell'idrogeno solo il verde; e a questo solo se non altrimenti necessario mi atterrò nell'esposizione.

Premessa. L'idrogeno verde oggi richiede per la sua produzione più energia di quanta ce ne lasci. Consumando 100 kWh di elettricità produciamo al meglio 70kWh di idrogeno. Dal che due conseguenze.

La prima è che non ha di regola senso utilizzare il vettore idrogeno per impieghi per cui si possa ricorrere direttamente al vettore elettrico. E dunque la priorità di impiego dovrebbe essere nei settori c.d. “hard to abate”. L'idrogeno (verde) che sostituisce l'idrogeno (grigio) anzitutto nei procedimenti di raffineria e nelle produzioni di ammoniaca; laddove la prospettiva di un aumento del costo dei permessi di emissione può già da oggi ridurre il gap di costo tra grigio e verde. Sul resto degli hard to abate oggi siamo essenzialmente in fase ricerca e sviluppo (impianti pilota inclusi) nella speranza che in un decennio l'idrogeno si possa dedicare su scala industriale ad es. alla produzione dell'acciaio.

La seconda conseguenza è che nessun produttore rinnovabile la cui produzione sia assorbibile per intero dalla rete avrà mai convenienza a scambiare un più per un meno, e insomma a convertire elettricità in idrogeno. Le condizioni (necessarie ma non sufficienti) per la produzione di idrogeno verde sono perciò l'esistenza di una significativa capacità di generazione rinnovabile eccedente quella ospitabile in rete ed un prezzo di quanto immesso in rete che remuneri l'installazione di capacità eccedente. La fonte (sole o vento) è gratis; e nell'alternativa tra non produrre e produrre idrogeno la scelta non potrà che essere di produrre.

Sulla capacità rinnovabile da installare siamo però in condizione già più che critica. Nel 2020 abbiamo realizzato nuova generazione per 0,8 GW. La Spagna per 4,6. Per raggiungere gli obiettivi 2030 dovremmo marciare da subito col passo spagnolo. E invece nel 2021 il quinto bando per l'assegnazione di capacità di generazione rinnovabile- è andato quasi deserto. 1862,5 MW offerti per impianti utility scale; e 122,7 richiesti. E non è, si badi, questione di prezzo. In Spagna il prezzo medio di aggiudicazione è sui 24/25 Euro/MWh (con un minimo storico addirittura a 14); e da noi stabilmente sopra i 60, che è numero lontanissimo dalla market parity.

Non sembri una divagazione. Dobbiamo nel decennio essere in grado di installare almeno 3,5 GW all'anno solo per raggiungere gli obiettivi di generazione elettrica consumabile in forma elettrica (tra rete e autoconsumo). La capacità utilizzabile per produrre idrogeno necessita che si superi l'obiettivo installando capacità destinata a usi e consumi diversi. Senza questa overcapacity installata parlare di idrogeno verde è pura teoria. E dunque la priorità assoluta non può che essere di creare le condizioni oggi mancanti per la sua produzione. Può darsi che il problema che ci differenzia dalla Spagna sia quello delle pesantezze autorizzative; e può darsi sia (anche) altro. Comunque o lo si risolve, o non ci si mette nemmeno in cammino.

Se questi sono i tempi della produzione (nazionale) di idrogeno verde in parallelo al tentare di moltiplicare la capacità di generazione, il miglior investimento possibile è quello in ricerca e sviluppo. Il ricorso massiccio all'idrogeno fuori dei settori hard to abate non è imminente; e nelle condizioni dell'oggi costerebbe uno sproposito. A eguale potere calorifico, la parità di costo col gas naturale implicherebbe oggi un costo implicito del permesso di emissione a carico del gas tra 25 e 105 euro per l'idrogeno blu – che sembrerebbe forse sostenibile – ma da 400 a 505 Euro per il verde da fotovoltaico. Da qui al 2030 il gap dovrebbe dimezzarsi, ma lasciamo che la tecnologia sia aiutata ad evolvere. Nel frattempo si parla di miscelare l'idrogeno al gas naturale nelle reti nazionali e locali. Per quanto detto, quell'idrogeno per almeno un decennio non potrebbe che essere di colore diverso dal verde; e posto che per fare il potere calorifico di un m3 di metano ce ne vogliono 3 di idrogeno, ci toccherebbe comunque di cambiare per intero la rete degli attuali contatori (che misurano m3 e non potere calorifico). Ci sarà tempo per riconsiderare a generazione più sicura.

Infine il tema della catena produttiva. La proposta di risoluzione cita tra le altre e come già il Pniec la necessità di costruire una filiera italiana di eccellenza per la produzione tra l'altro di elettrolizzatori. Che l'Italia debba acquisire capacità produttiva nei settori delle infrastrutture e delle tecnologie della transizione è per certo priorità del e per il Paese. Nei prossimi anni avremo ad assisterci i fondi del piano di resilienza. Che però non sono economia del dono. In ultima istanza sono debito; o comunitario, quando ci vengono retrocessi a fondo perduto, o direttamente nostro, come è per quella parte – maggioritaria – che ci iscriviamo direttamente a debito. Il debito ha un sottostante; che altro non è che la produzione di valore del contribuente che alla fine della catena è quello che ci mette l'iniziale capitale di rischio. O questo debito riusciamo a utilizzarlo per creare ricchezza, oppure utilizzandolo male concederemo forse alla nostra generazione più contingente capacità di consumo e però alle generazioni che seguiranno solo più debito.

Da qui due esigenze. La prima è quella di usare i fondi disponibili per generare valore; e la seconda è di conservare valore a chi lo ha generato. La decarbonizzazione se la lasciamo al mercato non va quasi neanche a incominciare. Ha bisogno di “sostegno pubblico”. Ma le risorse non sono infinite. La straordinaria opportunità della resilienza è per definizione temporanea. Dobbiamo spenderla bene. Avremmo bisogno di un processo di selezione dei sostegni pubblici che li classifichi trasparentemente in funzione dell'efficacia della spesa (che vuole dire essenzialmente suo ritorno in termini di generazione di ricchezza) e che nel calcolo valorizzi l'elemento climatico/ambientale. Meglio investire in microgeneratori o in elettrolizzatori? Quanto costa usare il verde nei processi di raffineria e per quel costo quante emissioni ci risparmia? Che strumenti abbiamo, e a che costo, per far crescere la “componente italiana” dei manufatti? Dove e quanto pubblicamente sostenere è poi prerogativa della politica; ma esercitarla dopo avere cercato di calcolare i moltiplicatori “ambiental-keynesiani” che si comparano può essere di aiuto al decidere ed anche ad ottenere consenso dal contribuente.

Poi c'è il tema del conservarlo, il valore. Non solo sussidi e fondi perduti; ma anche un po' di partecipazione pubblica al valore che si crea. Un nuovo modello di compartecipazione pubblico/privato. Laddove il pubblico che investe e finanzia mantiene ad esempio una quota di ciò che ha contribuito a sviluppare. Magari facendola confluire in un fondo se volete sovrano che aiuti in futuro a ripagare il debito e consenta indirettamente ai contribuenti come stakeholders di beneficiare di un qualche ritorno su un investimento che hanno contribuito a finanziare.

Cassa depositi e prestiti di elettrolizzatori in fondo già se ne intende.




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