Secondo l'Aie l'idrogeno sarà, insieme all'elettrificazione, uno dei pilastri della decarbonizzazione. Ma la semplice aritmetica delle grandezze in gioco dimostra con bruciante chiarezza la distanza che ci separa da un suo sviluppo su vasta scala, che non sarà certo un fatto del prossimo decennio.
Sono alcuni degli spunti emersi al webinar “Idrogeno quali prospettive e ruolo nella transizione energetica?”, svoltosi il 30 aprile a Parigi. E' il secondo di un ciclo di incontri sulla transizione energetica promossi dalla rappresentanza d'Italia presso le organizzazioni internazionali a Parigi, d'intesa con l'Enea per favorire l'incontro tra le realtà italiane della ricerca e dell'industria di settore con l'Aie. L'evento ha visto la partecipazione di rappresentanti di Aie, Enea, Enel, Eni, Edison e Confindustria Energia.
Paolo Frankl, responsabile della divisione energie rinnovabili dell'Aie, pur senza poter anticipare i nuovi dati che verranno illustrati il 18 maggio nella presentazione del report Net Zero Emission dell'Agenzia, ha rimarcato che lo sviluppo dell'idrogeno richiede uno “scale up enorme”. Evidenziando al tempo stesso che “il potenziale c'è” ma potrà venire in particolare da alcune zone del mondo, come Cile, Marocco, Medio Oriente, India e Australia, più promettenti in quanto dotate di abbondanti risorse rinnovabili non assorbibili dal mercato interno, e quindi votate all'esportazione.
Esportazione, ha aggiunto Frankl, che dovrà passare in misura importante non solo per idrogeno puro ma anche per vettori più facilmente trasportabili come metanolo e ammoniaca, “che brucia bene nelle centrali a carbone”. Il tutto senza nascondersi altri limiti importanti: per ripagarsi, ad esempio, un elettrolizzatore deve lavorare almeno 3.000 ore all'anno, fattore di carico non scontato, oltre a poter disporre di elettricità da fonte rinnovabile a prezzi molto bassi.
L'Idrogeno, ha avvertito in conclusione, “non va visto come un'improvvisa panacea, ma può giocare un ruolo importantissimo complementare all'elettrificazione, sono questi i due pilastri della decarbonizzazione”. Ricordando sempre, ha aggiunto, che lo sviluppo “non potrà venire solo da forze mercato, un importante ruolo lo avranno i governi”.
In evidenza anche l'intervento conclusivo di Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr, tutto dedicato a evidenziare, utilizzando esempi e termini di paragone, l'enormità delle proporzioni in gioco quando si parla di sostituire l'idrogeno verde alle attuali fonti energetiche.
Per fare 1 kg di idrogeno, ha esordito, ci vogliono 50 kWh di elettricità, l'equivalente dei consumi di energia di una famiglia in una settimana, e 9 litri d'acqua. Ciò significa che si tratta di una risorsa preziosissima, da usare solo per specifici scopi, ossia non dove ci sono alternative consolidate, come nelle automobili o nel riscaldamento. Qui auto elettriche e pompe di calore prevalgono nettamente per efficienza su soluzioni come il blending di idrogeno col metano o bruciare idrogeno puro, opzioni da 3 a 5 volte più energivore.
Può invece avere un ruolo nel trasporto pesante, su gomma, navale o ferroviario, o nell'industria, ha proseguito Armaroli. Ha fatto quindi l'esempio di un viaggio tipico di una maxi-nave cargo da 220.000 tonnellate, che oggi consuma per 30 giorni di navigazione 9.000 tonnellate di bunker oil sostituibili con 3.000 t di idrogeno. Per produrre tanto idrogeno green servono 150 GWh di energia rinnovabile, ossia l'equivalente, per un solo viaggio, di quasi tre anni di produzione dell'elettrolizzatore da 10 MW di Fukushima in Giappone, associato a un campo fotovoltaico da 20 MW (26 campi da calcio), che genera circa 900 t/anno di idrogeno.
Se il nostro obiettivo è produrre 1 mln di tonnellate all'anno di H2 con 6 GW di elettrolizzatori, ha osservato ancora Armaroli, ciò è possibile a condizione di avere 10 GW di potenza elettrica dedicata, utilizzata con un fattore di carico del 60%, compatibile tra le rinnovabili solo con l'idroelettrico, ma non con eolico e solare – le fonti che l'Italia può sviluppare – che avendo un fattore di carico molto inferiore, intorno al 20%, richiederanno quindi una capacità dedicata tre volte superiore.
In Italia il capacity factor del solare è il 13% per una capacità installata di 21 GW e 24 TWh prodotti: se volessimo sostituire con idrogeno green tutte le 480.000 t/anno di idrogeno consumato attualmente da raffinazione e petrolchimica, con un fattore di carico del 20% ciò richiederebbe 25 TWh di produzione dedicata, ossia l'equivalente di raddoppiare l'attuale produzione solare nazionale solo per coprire il fabbisogno attualmente soddisfatto con idrogeno grigio.
Se poi si considera l'obiettivo del 2% di usi finali coperti con l'idrogeno, indicato nelle linee guida preliminari della Strategia nazionale idrogeno del Mise, significherebbe 850.000 t/anno e 47 TWh, ossia triplicare l'attuale produzione solare.
Quanto infine ad alimentare con idrogeno verde l'attuale produzione di acciaio italiana di 23,2 mln t/anno, assumendo un rapporto di 50 kg di idrogeno per tonnellata di acciaio ci vorrebbero 1,2 mln t di H2 per 63 TWh, e così via. Il tutto senza considerare gli obiettivi di incremento della produzione elettrica da rinnovabili, che già da soli ci impongono un incremento di circa 80 TWh all'anno dai 116 attuali a circa 200 al 2030.
In conclusione, rileva Armaroli, sommando i target sulle Fer elettriche a quelli ora menzionati sull'idrogeno, per raggiungerli tutti occorrerebbe 10 volte l'attuale produzione da fotovoltaico.
“Abbiamo una questione idrogeno o una questione elettricità rinnovabile?”, ha concluso. “La strada è molto in salita, sui media vedo molta faciloneria. Non dobbiamo creare facili illusioni sul fatto che l'idrogeno sia già pronto, mentre non contribuirà agli obiettivi al 2030. Stiamo attenti all'effetto boomerang e a non dimenticare due fattori: credibilità e accettabilità sociale, ad esempio credo che l'idrogeno blu abbia un grosso problema di accettabilità sociale”.
Il video integrale del webinar è disponibile a QUESTO LINK.