La Cina continua a costruire centrali a carbone, e lo fa non perché la domanda di energia elettrica lo richieda ma per rilanciare la crescita economica e l'occupazione. Una versione “nera” del New Deal roosveltiano (che partì dall'energia idroelettrica, v. Staffetta 13/9). Tra il 2018 e metà 2019 sono entrate in funzione in Cina centrali a carbone per 42,9 GW, più di venti volte la potenza dell'impianto Enel di Torre Valdaliga Nord. Di fronte a questo “Black new deal” impallidisce il Green New Deal europeo: gli impianti a carbone in costruzione in Cina valgono quanto l'intera potenza a carbone attualmente in funzione in Europa.
Qui c'è qualcosa di grosso che non torna e che riguarda, prima ancora che l'ambiente e il clima, l'egemonia. Le rivolte contro il caro benzina nei paesi produttori di petrolio (da ultimo, Bolivia e Iran) segnalano che per quanto si sia tutti d'accordo sulla necessità di eliminare progressivamente i sussidi alle fonti fossili, la strada è lunga e tortuosa. E l'approccio virtuoso europeo è tutt'altro che egemonico. Il punto è che il Green New Deal in un solo Paese (o in un solo continente) è, nel migliore dei casi, una pia illusione. Nel peggiore, una pericolosa ipocrisia.