Come accade ciclicamente, è tornata in questi giorni ad affacciarsi la questione dei sussidi alle fonti fossili, questa volta dalla porta della campagna elettorale. A tirarla fuori con una certa insistenza è stato il candidato premier del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio. Prima ha detto che avrebbe finanziato l'allargamento della “no tax area” pescando dai 16 miliardi di incentivi e sgravi “a petrolio e carbone”. Poi ci è tornato stamattina sul blog del movimento (orfano di Beppe Grillo), parlando dello “shock fiscale” da affiancare agli investimenti pubblici (50 miliardi in 5 anni) in green economy, bonifiche, rete idrica, rete elettrica, adeguamento sismico, mobilità pulita e sostenibile, dissesto idrogeologico, riqualificazione urbanistica, edilizia scolastica e sanitaria, banda ultra larga, infrastrutture immateriali. Lo shock fiscale sarà “in favore di imprese e cittadini”, e avverrà dimezzando l'Irap (da 21 a 10 miliardi) usando anche “una quota di tax expenditures riviste (gasolio, accise, ecc)”. Ma il taglio dei “sussidi e agevolazioni su fossili o dannosi per l'ambiente” andrebbe a finanziare anche l'aumento della spesa sanitaria per riportarla “oltre il 6,5% del Pil”. Dichiarazioni cui ha fatto dal corollario una “inchiesta” uscita giovedì sul quotidiano “la Repubblica” che parla di “sette incentivi statali killer per l'ambiente” ripercorrendo in sostanza il “Catalogo dei sussidi” pubblicato giusto un anno fa dal ministero dell'Ambiente.
Fortunatamente, nell'ultimo anno si è accumulato un po' di materiale sul tema: oltre al Catalogo del Minambiente, vale la pena citare lo studio realizzato da Nomisma Energia per Confindustria Energia. Tuttavia il problema non è tanto di numeri, quanto politico – nel senso più alto, perché il tema è scivoloso, crea illusioni e si presta a facili strumentalizzazioni.
Rispetto alle mirabolanti proposte di abolizione che abbiamo sentito all'esordio della campagna elettorale, c'è da dire che questa ha il merito di andare a individuare interventi che effettivamente potrebbero portare a un aumento del gettito, come appunto l'abolizione di determinate agevolazioni. Il modo in cui vengono presentati tradisce però un grave e voluto malinteso.
La questione della revisione dei sussidi (o tax expenditures) è da tempo all'attenzione della politica. Prima del ministero dell'Ambiente, il catalogo dei sussidi lo ha infatti messo a punto il ministero dell'Economia, con quello che è stato ribattezzato – con una venatura di terrore – il “tabellone”: l'elenco di tutti gli sgravi e agevolazioni che in base alle disposizioni sulla spending review dovrebbero essere valutati ed eventualmente modificati o eliminati ogni volta che si presenta il Def (elenco in cui rientrano tra l'altro anche gli 80 euro di Renzi). Nessun inquilino di via XX settembre ha però mai osato neanche avvicinarsi al dossier. Eppure, se si trattasse veramente di togliere sussidi ai petrolieri e ai carbonieri, non dovrebbe essere così complicato intervenire, dal punto di vista politico: non si troverebbe probabilmente nessuno disposto a scendere in piazza per difenderne i privilegi – tanto più che i petrolieri non portano neanche più in Italia i vari Ronaldo, Seedorf o Batistuta. Facile dunque, no?
Il punto è che, ahimé, i sussidi non vanno ai petrolieri ma alle aziende di trasporto, alle compagnie aeree, ai lavoratori agricoli, ai pescatori, alle società di navigazione. Insomma, per recuperare quei miliarducci di cui parla, Di Maio dovrebbe presentarsi prima davanti ai trasportatori, poi dagli agricoltori, ma soprattutto, alla fine, da tutti quei cittadini che vedrebbero aumentare i prezzi delle merci, dei prodotti agricoli, dei biglietti aerei e dei traghetti. Auguri.
Il punto è che affrontare la questione degli sconti sulle accise all'autotrasporto significa affrontare i problemi del settore, del perché non sta in piedi e della concorrenza drogata delle aziende dell'est. O parlare della crisi del comparto agricolo, o mettere in mora gli accordi internazionali sulla tassazione del kerosene, magari rendendo meno appetibili gli scali aerei italiani. Gli sgravi agli energivori (poco meno di due miliardi di euro l‘anno secondo le stime Mise) sono stati appena introdotti. E non sono sussidi alle fonti fossili ma sussidi alle industrie. Cioè Pil, ricchezza e (anche se non sempre) posti di lavoro. Anche qui: parlarne e affrontare le questioni della competitività (come non si è fatto finora) significa fare politica nel senso più alto del termine. Rubricare l'intervento come “sussidio alle fonti fossili” è poco più che un nonsenso.
Parlare seriamente di questi temi potrebbe servire soprattutto a orientare la fiscalità in senso ambientale. Se aumento le accise ai trasportatori, sarebbe una misura politicamente coerente da un punto di vista ambientale destinare il surplus di gettito a quei trasportatori che acquistano mezzi ecologici. Qui invece si parla di pescare risorse aumentando le tasse sui prodotti energetici per destinarle a tutt'altri usi. Come si è sempre fatto in Italia, dove le accise sono tra le più alte d'Europa e vanno a finanziare i bisogni essenziali dello Stato.
Il punto di caduta è sempre lo stesso: se si rappresenta la realtà in modo parziale o distorto, si finisce per pensare che ci sia un “grande vecchio” che copre petrolieri e carbonieri di sussidi.