Il caro energia non solo rappresenta un pericolo per la ripresa post pandemia, le imprese e la stabilità dei prezzi al consumo, ma minaccia anche di bloccare la transizione energetica, rendendone il costo insostenibile. Lo sostiene in questo intervento Guido Bortoni, secondo cui prima che sia troppo tardi bisogna ricucire lo “strappo” creato da una remunerazione delle rinnovabili legata a doppio filo al prezzo del gas.
Tanti sono gli effetti del perdurare del caro-energia nell'economia e società europee. In Italia, gli effetti deleteri del caro-prezzi energetico fiaccano la ripresa economica post-pandemia, la competitività delle nostre imprese sui mercati globali, la stabilità dei prezzi al consumo via inflazione e, financo, il progresso della transizione energetica green.
Dei primi effetti negativi si parla molto, mentre l'ultimo è sostanzialmente ignorato dai più. Qui, al contrario, desidero argomentare tra addetti ai lavori nell'energia circa la minaccia del caro-prezzi al processo della transizione energetica.
Il nucleo del mio ragionamento è presto detto: il perdurante caro-prezzi energia starebbe producendo “strappi” all'integrità stessa dell'iter di decarbonizzazione, uno dei quali si manifesterebbe proprio nel settore di punta della stessa, quello delle energie rinnovabili elettriche (le c.d. FER-E). Nell'analizzare quello strappo, non intendo fermarmi ad imputare colpe al ben noto problema – pur di primaria grandezza – della lentezza (se non addirittura inadeguatezza) delle autorizzazioni assegnate alle FER-E italiane ovvero al busillis – pur di grande incidenza - relativo all'alto prezzo di aggiudicazione nelle aste di CfD alle nuove FER-E italiane rispetto, ad esempio, alle “colleghe” europee. Li do per analizzati e spero vi siano soluzioni in fieri.
Guardo, invece, alla remunerazione più o meno adeguata (vista dai produttori), più o meno equa (vista dai consumatori) che il capitale investito in asset rinnovabili trova nel mercato elettrico e la sua traduzione in costo della transizione green più o meno sostenibile per i consumatori. Qui si situa uno strappo vistoso alla sostenibilità economica-sociale della transizione che, a mio avviso, deve ancora essere ricucito. Si potrebbe obiettare che tale questione vale per (quasi) tutte le fonti inframarginali carbon-free o low-carbon nel mercato elettrico che risultano “sottese” alla produzione da fossili e, tra queste ultime, a quella marginale a gas. Ma si sa: in un'Italia elettrica, senza nucleare e (per ora) senza produzioni carbon-abated, la questione si riduce in gran parte al ticket rinnovabili+gas ovvero – fuori-tutta – al 38%+48% del prodotto elettrico lordo 2019.
Vediamo con ordine.
Innanzitutto, nel mezzo della pandemia dai consumi depressi, vi era a Bruxelles come a Roma chi auspicava che il sistema energia, entrato nell'era pandemica a prevalenza fossile, rinascesse e riprendesse gli originari volumi a stretto giro e più rinnovabile di prima. Ci si attendeva quindi una transizione green in ascesa grazie ai volumi decarbonizzati FER-E ed i costi del mix in discesa, sia per gli effetti di un maggiore peso sui costi variabili (nulli) di solare ed eolico, sia per il continuo calo dei costi fissi di tali tecnologie. Il modello sottostante a tali auspici prevedeva dunque un grande sforzo sulle nuove rinnovabili, ceteris paribus circa gli altri fondamentali a partire dal gas. Tradotto, ciò stava a significare che la remunerazione a lungo termine delle nuove rinnovabili elettriche e delle esistenti non incentivate avrebbe dovuto rimanere - anche post-pandemia - nella fascia media annua di 50-70 euro/MWh, parimenti al prezzo marginale fissato dal gas, mentre per le esistenti FER-E incentivate l'onere complessivo del sistema di sostegni economici non si sarebbe incrementato.
La realtà post-biennio pandemico, invece, ha prima di tutto mostrato plasticamente (speriamo non irreversibilmente) un salto quantico quanto al modello, smentendo il ceteris paribus del mercato gas che invece rappresenta il vero game-changer con la sua stagione di prezzi assai elevati e fortemente volatili. Tre i maggiori assi che hanno indotto il cambiamento alla ripresa dei consumi globali. Il primo concerne una domanda di gas messasi al galoppo nell'est del mondo (Cina in primis) che ha portato il gas ad essere una risorsa globalmente contesa sui mercati; il secondo è il dato geopolitico che scarica tensioni sugli approvvigionamenti gas per l'Europa; il terzo – va ricordato – riguarda una stretta negli investimenti sull'estrazione di gas dovuta sia agli annunci di politiche pubbliche “semi-proibizioniste” sul gas del futuro che alla contrazione a livello globale degli investimenti programmati sulle risorse gas causa crisi dell'economia ‘20-'21.
In Italia, durante il biennio di crisi, un sostanziale ceteris paribus si è purtroppo applicato alle rinnovabili elettriche o, meglio, ai loro volumi che non si sono incrementati quanto programmato. Non così è stato per la remunerazione a mercato delle FER-E esistenti che si è, invece, di fatto “incollata” all'alto prezzo marginale venutosi a determinare nel mercato elettrico spot negli ultimi mesi del biennio (es. media annua 2021 = 126 euro/MWh e mensile gennaio 2022 = 216 euro/MWh), salvo per pochi volumi FER-E legati ai CfD a prezzo fisso delle ultime aste per rinnovabili.
Da qui l'evidente strappo ai danni della sostenibilità economico-sociale dei consumatori elettrici (grandi, medi e piccoli). Come per ossimoro, infatti, essi vedono incrementare velocemente l'onere dell'energia della transizione green mentre – come detto - si attendevano un calo dei prezzi nel mercato elettrico.
Ma vi è di più, perché lo strappo ha sempre almeno due lembi.
Lembo consumatori. Atteso che i programmi di sviluppo delle FER-E per il 2030 (PNIEC attuale e rivisto con Fit-for-55) sono giustamente assai ambiziosi (alcune posizioni riportano addirittura una decuplicazione del tasso di crescita attuale di nuove FER-E), l'effetto di sovra-remunerazione delle FER-E descritto poc'anzi rischia comunque di amplificarsi notevolmente e di gravare insostenibilmente sulle spalle del consumatore, aprendo ulteriormente lo strappo. Né basteranno misure ex post di recupero di tali sovra-remunerazioni delle FER-E, anche se prenderanno la forma di prelievo fiscale, in quanto queste alimentano l'incertezza nei mercati energetici e quindi i conseguenti oneri.
Lembo produttori FER-E. Guardando un po' più a lungo degli interessi contingenti, il rischio che cala su tutto il parco FER-E del futuro – soprattutto se vengono a crearsi imponenti volumi di nuove rinnovabili che dovrebbero portare la componente FER-E intorno al 70% del mix elettrico 2030 – è quello della cosiddetta cannibalizzazione reciproca. In poche parole, quanto più aumenta la presenza FER-E in una zona di mercato (e dei conseguenti accumuli) tanto più aumenta la probabilità di ore di “crollo” del prezzo marginale di mercato elettrico per esclusione delle fonti marginali a gas (il prezzo per tutti lo farebbe una fonte FER-E a costo variabile molto basso), a detrimento della remunerazione di quelle FER-E incollate unicamente a tale prezzo.
Tutto ciò detto, risulta evidente quanto sia essenziale ricucire oggi lo strappo nell'interesse di tutti, prima di farlo ulteriormente degenerare. Ricucire significa – già l'ho sottolineato in altri interventi – predisporre ex ante misure di mercato che riportino in un collar di sostenibilità gli investimenti rinnovabili ed il mercato odierno a System Marginal Price. La chiave è nel disegnare un mercato aggiuntivo di medio-lungo termine – senza sostituire quello elettrico a pronti né variarne la regola di formazione dei prezzi – che assegni la dovuta remunerazione di lungo termine alle FER-E esistenti (oggi 120 TWh/y circa) e nuove (altri 80 TWh/y al 2030?) nonché una sostenibile remunerazione minima (floor), sempre a garanzia degli investimenti rinnovabili.
Ecco perché la ricucitura dello strappo va operata oggi, nel segno della vera integrazione delle FER-E nei mercati e non già della loro omologazione - assai miope - alle produzioni a gas nel mercato elettrico spot.